Artigiani, il volto dell'arte
I maestri comacini. Artigiani e artisti assieme. Fu anche la loro concezione del lavoro, a condurre il medioevo verso l'umanesimo. Li mosse il desiderio di fare oggetti che durano. Accanto al desiderio di possedere oggetti che durano. Stati d'animo che potrebbero aiutarci ad uscire dalla crisi.

Luogo comune di un banale che ripete tanto ma crea poco: ci sono artigiani che sono dei veri artisti. Già, è così. Se guardi alla storia che le cose non ha interesse a fingerle, si scopron tempi senza confini fra mestiere e arte, in cui anzi era il primo, oggi più banale, a descrivere la seconda. Si parla di un antico faticoso da pensare in giorni fatti per “vendere” un presente qualsiasi e a intendere come qualità la frase tanto cara al marketing “costa poco quindi è bello”
No, il bello non si conta, il bello è bello e basta, è un modo di lavorare, e a dimostrarlo se guardi indietro nel tempo ti capita di trovare una estetica del fare dove non dovresti trovarla, e questo è unadimostrazione.
Non si sa se il loro nome derivi da Como o da “cum machines”, nel senso che per sollevare le loro opere usavano gru, argani o altri marchingegni. Ciò che è certo invece delle arti dei magistri Comacini è che dall’ottavo al tredicesimo secolo furono fra i principali motori della rivoluzione artistica ed architettonica europea. La scrittura di questi artigiani-maestri era la pietra, materia inanimata che resero soffio artistico intuendo una profondità ed un vuoto capaci di narrare e dando un “movimento” allo sguardo dell’uomo che nel passaggio fra romanico e gotico fu portato in alto. Lassù.
Lasciando da parte le righe descrittive da “Garzantina” che con la vita reale c’entrano poco, ciò che stupisce è come la concezione del bello di questi “maestri” possa esser nata in una realtà “cruda” come quella medioevale.
Al di là dell’iconografia fiabesca del c’era una volta di Shrek, quando descriviamo l’uomo attorno all’anno mille stiamo disegnando una società lacera, affamata, sporca e violenta in cui la vita media era sotto i 40 anni e in cui metà dei bambini morivano prima dei 5 anni. Mentre le campagne erano soggette ad ogni sopraffazione, le città erano ricettacolo di pestilenza e cloache a cielo aperto, tanto che ad annunciarle, chilometri prima dell’incontro con una architettura quasi interamente di paglia, fango e legno, era l’odore.
Attorno all’anno mille l’arbitrio era legge, e la formazione dei comuni e delle signorie furono semplicemente l’attenuazione di questa instabilità attraverso una “forza” delegata ma a puro uso e consumo dei commercianti e degli artigiani, in una società in cui gli unici ad essere garantiti erano coloro che producevano (con qualche eccezione tipo le confraternite e le opere pie) ma fino ad un certo punto perché le frequenti pestilenze, come la sfiga, non conoscevano barriere di censo. Una società analfabeta ed ignorante per la quasi totalità, dove la denutrizione e le malattie dei molti erano la costante e il sopravvivere l’unico interesse, questo era il terreno su cui edificarono la loro arte i maestri comacini, che ad un certo punto passarono dal sopravvivere al rappresentarsi attraverso la pietra. Bisogna pensare a uomini, semplici scalpellini, che facevano della lavorazione di un capitello magari l’intero prodotto della loro vita, ma con l’intenzione, conscia o inconscia, di realizzare qualcosa di eterno. E quell’eterno è ancora lì, davanti ai nostri occhi, in quella pietra scolpita tanto vicina ad ogni arte che la circonda. Artigiani artisti.
Questi “magister”, quasi tutti padani, erano essenzialmente dei nomadi (non è che il binomio padani nomadi tiri molto quassù, ma scusatemi, era così) che portavano l’“arte” in ogni luogo venisse richiesta.
Quale fu il movente che forgiò i maestri comacini è difficile da dire, anche se, probabilmente fu semplicemente il fatto che sapevano e volevano fare cose che portava meraviglia a quella umanità lacera, spinta innanzitutto a sopravvivere, che nonostante i bisogni primari, intorno all’anno mille, accettò di stupirsi. “La bellezza è la meraviglia delle meraviglie” diceva Oscar Wilde. Già, la meraviglia, lo stupore, come mezzo di produzione.
Ciò che è prodotto così, non è qualcosa da usare, ma da amare di poter possedere. Il nostro artigianato sta morendo proprio perché il pubblico non accetta più lo stupore, la bellezza, la meraviglia come valore di ciò che si ha.
Ad un certo punto, il popolo del medioevo cominciò ad imparare a guardare un po’ più in alto della miseria che lo circondava. Forse anche noi potremmo ricominciare da questo uscendo dalla crisi. Faremmo bene agli artigiani veri. Al mercato. Ma anche a noi….
No, il bello non si conta, il bello è bello e basta, è un modo di lavorare, e a dimostrarlo se guardi indietro nel tempo ti capita di trovare una estetica del fare dove non dovresti trovarla, e questo è unadimostrazione.
Non si sa se il loro nome derivi da Como o da “cum machines”, nel senso che per sollevare le loro opere usavano gru, argani o altri marchingegni. Ciò che è certo invece delle arti dei magistri Comacini è che dall’ottavo al tredicesimo secolo furono fra i principali motori della rivoluzione artistica ed architettonica europea. La scrittura di questi artigiani-maestri era la pietra, materia inanimata che resero soffio artistico intuendo una profondità ed un vuoto capaci di narrare e dando un “movimento” allo sguardo dell’uomo che nel passaggio fra romanico e gotico fu portato in alto. Lassù.
Lasciando da parte le righe descrittive da “Garzantina” che con la vita reale c’entrano poco, ciò che stupisce è come la concezione del bello di questi “maestri” possa esser nata in una realtà “cruda” come quella medioevale.
Al di là dell’iconografia fiabesca del c’era una volta di Shrek, quando descriviamo l’uomo attorno all’anno mille stiamo disegnando una società lacera, affamata, sporca e violenta in cui la vita media era sotto i 40 anni e in cui metà dei bambini morivano prima dei 5 anni. Mentre le campagne erano soggette ad ogni sopraffazione, le città erano ricettacolo di pestilenza e cloache a cielo aperto, tanto che ad annunciarle, chilometri prima dell’incontro con una architettura quasi interamente di paglia, fango e legno, era l’odore.
Attorno all’anno mille l’arbitrio era legge, e la formazione dei comuni e delle signorie furono semplicemente l’attenuazione di questa instabilità attraverso una “forza” delegata ma a puro uso e consumo dei commercianti e degli artigiani, in una società in cui gli unici ad essere garantiti erano coloro che producevano (con qualche eccezione tipo le confraternite e le opere pie) ma fino ad un certo punto perché le frequenti pestilenze, come la sfiga, non conoscevano barriere di censo. Una società analfabeta ed ignorante per la quasi totalità, dove la denutrizione e le malattie dei molti erano la costante e il sopravvivere l’unico interesse, questo era il terreno su cui edificarono la loro arte i maestri comacini, che ad un certo punto passarono dal sopravvivere al rappresentarsi attraverso la pietra. Bisogna pensare a uomini, semplici scalpellini, che facevano della lavorazione di un capitello magari l’intero prodotto della loro vita, ma con l’intenzione, conscia o inconscia, di realizzare qualcosa di eterno. E quell’eterno è ancora lì, davanti ai nostri occhi, in quella pietra scolpita tanto vicina ad ogni arte che la circonda. Artigiani artisti.
Questi “magister”, quasi tutti padani, erano essenzialmente dei nomadi (non è che il binomio padani nomadi tiri molto quassù, ma scusatemi, era così) che portavano l’“arte” in ogni luogo venisse richiesta.
Quale fu il movente che forgiò i maestri comacini è difficile da dire, anche se, probabilmente fu semplicemente il fatto che sapevano e volevano fare cose che portava meraviglia a quella umanità lacera, spinta innanzitutto a sopravvivere, che nonostante i bisogni primari, intorno all’anno mille, accettò di stupirsi. “La bellezza è la meraviglia delle meraviglie” diceva Oscar Wilde. Già, la meraviglia, lo stupore, come mezzo di produzione.
Ciò che è prodotto così, non è qualcosa da usare, ma da amare di poter possedere. Il nostro artigianato sta morendo proprio perché il pubblico non accetta più lo stupore, la bellezza, la meraviglia come valore di ciò che si ha.
Ad un certo punto, il popolo del medioevo cominciò ad imparare a guardare un po’ più in alto della miseria che lo circondava. Forse anche noi potremmo ricominciare da questo uscendo dalla crisi. Faremmo bene agli artigiani veri. Al mercato. Ma anche a noi….
03 ottobre 2014